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Referendum

Sindacato Nuovo, numero 2 noembre 2019. La normativa sul distacco transnazionale dei lavoratori in Italia. Ne scrive Adrea Allimprese, dell''Ufficio Giuridico Cgil Nazionale.

Il distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi transazionale è il campo nel quale si manifesta con più evidenza il problema del dumping sociale e retributivo, reso possibile dagli enormi squilibri macro-economici che caratterizzano i diversi mercati del lavoro nazionali coesistenti all’interno dell’Unione europea. In questo quadro l’Italia si colloca in una posizione ambivalente: le drastiche politiche di deregolamentazione e di compressione delle dinamiche salariali l’hanno reso un paese esportatore di manodopera a basso costo nell’Europa del Nord; d’altra parte, molti settori, soprattutto l’edilizia e i trasporti, continuano a subire il dumping operato dalle imprese con sede nei paesi dell’Est. L’Italia può essere collocata tra gli Stati membri importatori di lavoratori distaccati. I dati del ministero del Lavoro parlano di circa 61.000 distacchi in ingresso nel 2018. Il 34% dei distacchi coinvolge lavoratori di nazionalità rumena, per i paesi terzi, la maggior parte è di origine svizzera e bosniaca. Le imprese distaccanti hanno per il 30% sede in Germania; le imprese italiane distaccatarie si concentrano invece nel Nord-Est del paese. La metà dei distacchi in ingresso è di breve durata: al massimo 30 giorni; il 60% dei distacchi si chiude entro i 90 giorni.

Il legislatore Ue è intervenuto su questa materia, per la prima volta, nel 1996 con la direttiva n. 71, considerata la disciplina madre sulle condizioni di lavoro da applicare ai lavoratori distaccati nello Stato ospitante. In una serie di sentenze della Corte di giustizia si è applicata la direttiva 96/71 come normativa che impedisce agli Stati – e ai sindacati – di imporre alle imprese straniere che distaccano lavoratori il pieno rispetto degli standard normativi e retributivi fissati dai contratti collettivi ad efficacia non generalizzata vigenti sul territorio nazionale. L’Italia, pur avendo recepito la direttiva del 1996 con decreto legislativo n. 72/2000, volto ad imporre alle imprese straniere distaccatarie l’applicazione delle condizioni di lavoro fissate dai contratti collettivi ad efficacia non generalizzata, non è stata stranamente interessata da molti contenziosi avanti alla Corte di Lussemburgo su questo tema.

Un secondo intervento del legislatore europeo risale al 2014. La direttiva n. 67 non ha apportato modifiche alla direttiva del 1996, ma ha inteso colmarne le lacune regolative, superando le incertezze interpretative che hanno accompagnato la sua attuazione ventennale negli Stati membri. Questa direttiva contiene un pacchetto di misure di carattere sostanziale (volte a contrastare l’abuso dello status di lavoratori distaccati per eludere i vincoli normativi e il ricorso a società fittizie, “letter box companies”), combinate con misure meramente procedurali, che dovrebbero permettere un più efficace contrasto a comportamenti elusivi, soprattutto sulle condizioni di lavoro da applicare ai lavoratori distaccati nello Stato ospitante.

L’Italia ha dato attuazione alla direttiva del 2014 con il decreto legislativo n. 136/2016 (una sorta di testo unico sul distacco transnazionale). Anche se la direttiva 67 non ha modificato la direttiva madre, è stata colta l’occasione del suo recepimento per intervenire anche sui profili sostanziali del distacco, abrogando il decreto n. 72/2000 e sostituendolo con una nuova disciplina. Importante è la previsione per cui, in caso di distacco illegittimo, il rapporto di lavoro del distaccato è imputato in capo all’utilizzatore stabilito in Italia; il che comporta la piena parità di trattamento rispetto ai lavoratori da questo dipendenti.

L’ultimo intervento del legislatore europeo risale al 2018: trattasi della direttiva n. 957, che apporta modifiche alla direttiva madre 96/71. Il testo della direttiva del 2018 migliora il quadro esistente, avendo recepito i princìpi enunciati in una sentenza della Corte di giustizia in materia di trattamenti retributivi da corrispondere ai lavoratori in distacco transnazionale. La nozione di ”tariffa minima” è stata dunque sostituita con quella più ampia di “retribuzione”, nozione tendenzialmente omnicomprensiva con cui si intendono “tutti gli elementi costitutivi della retribuzione resi obbligatori da disposizioni legislative, da contratti collettivi del paese ospitante”.

Il profilo di maggior debolezza del regime del distacco transnazionale rimane l’applicabilità ai lavoratori stranieri dei contratti collettivi vigenti nello Stato ospitante. La possibilità di estendere i contratti collettivi alle imprese con sede all’estero trova in Italia gli stessi limiti che valgono per le imprese nazionali e che dipendono dalla mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione. Osta alla possibilità di prevedere ex lege l’obbligo di rispettare gli specifici contratti collettivi non solo il vincolo “negativo” dovuto alla norma costituzionale, ma anche i vincoli imposti dai princìpi del mercato unico, recepiti dalla direttiva 96/71. La possibilità di applicare ai lavoratori distaccati i contratti collettivi vigenti nello Stato di distacco è subordinata al fatto che siano tenute a rispettarli tutte le imprese nazionali operanti nel medesimo settore e zona nel quale opera l’impresa straniera, in ragione del fondamentale principio di non discriminazione. Questi limiti imporranno al legislatore italiano di identificare, in sede di recepimento della direttiva 2018/957 entro il 30 luglio 2020, quelle parti del contratto collettivo che sono comunque di generale applicazione per tutte le imprese nazionali; ciò al fine di giustificarne l’estensione anche a quelle straniere. Sarà quella l’occasione per affrontare le molte questioni che restano ancora aperte. Fondamentale sarà il coinvolgimento delle forze sociali nella fase di recepimento.

Altri aspetti di criticità della direttiva del 2018 riguardano: la regolazione del distacco “a catena” (la possibilità per l’impresa utilizzatrice di distaccare il lavoratore somministrato in altro Stato membro); la mancanza di precise regole comuni sulle sanzioni applicabili in caso di distacco illegittimo; l’esclusione dall’ambito di applicazione del trasporto su strada.

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